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Giuseppina Arangino
Cagliari, Italie - Italiana

Récits
Sorres (estratto)

La prima cosa che sentì fu il sangue che, caldo, si mischiava alla saliva. Deglutì, e quel sapore dolciastro, ferroso, le fece salire un gradino sulla scala della coscienza. Istintivamente, con la lingua, controllò che i denti fossero a posto. Sì, c’erano tutti. Solo allora le arrivarono, come attraverso dell’ovatta, i suoni.
Lentamente, un cinguettio d’uccelli si fece spazio nella sua mente.
Aprì gli occhi. Vide il pavimento in terra battuta su cui giaceva, parte della sua faccia ci poggiava sopra.
All’improvviso, uno scatto d’interruttore, le piombò addosso il dolore.
Il corpo. Perché aveva un corpo, pensò. Altrimenti non sarebbe stato possibile soffrire così tanto. Non in un momento.
Non capì bene in che posizione si trovasse; in ogni caso, temette di muoversi.
In un modo o nell’altro doveva farlo.
Iniziò spostando dolorosamente le mani. La sinistra era libera. La portò entro il suo campo visivo facendola strisciare lentamente sul pavimento. Un dolore acuto alla spalla le impedì di sollevarla. La destra stava sotto di lei, provare a muoverla scatenò un formicolio che le restituì la fisicità del braccio, bloccato sotto il fianco destro. Le gambe riusciva a muoverle.
Tentò di girarsi. Ogni muscolo lanciò un grido ma sentì solo la sua voce gemere, ringhiare…
E quel sangue che continuava a riempirle la bocca.
Con un moto di stizza si sollevò puntando i gomiti per terra.
Doveva escluderlo. Escludere il dolore lacerante che la attraversava a ogni gesto. Con la mente abbandonò il corpo appena ritrovato e riuscì a sedersi. Sputò seguendo con lo sguardo il filo di bava rossa che partiva dalla sua bocca. Poi vide qualcosa che, in tutto quel chiasso di fibre martoriate, non era riuscita a sentire. Era nuda.
Appoggiata sopra un pezzo di cartone. Scatoloni sventrati. Nuda. Almeno dalla vita in giù. Osservò le sue gambe e vide l’immagine dilatarsi fino a che le sembrò che quegli arti feriti, tumefatti, quei piedi cerei, non fossero suoi ma un macabro scherzo, un manichino dimenticato da chissà quale troupe, di chissà quale film.
Fra le gambe, oltre il velo acquoso della sua vista, lesse la scritta FRAGILE.
E il mondo ritornò ciò che era: aria, suoni, dolore e quel liquido caldo che, inondandole la faccia, la scosse in violenti singhiozzi e grida e gemiti. Perché il pianto era il suo, suo il dolore, sua la voce lamentosa e quello non era un film, non uno scherzo, non un incubo. Quella cosa ferita, sanguinante, dolente, era lei.
Era lei.
Per questo non riuscì a smettere nonostante il pianto la scuotesse in contrazioni dolorose, si sciogliesse in fitte lancinanti. Fu solo dopo molto tempo… Ma il tempo cos’è?
Fu quando ancora sussultava in strascichi di rabbia lacrimosa che ricordò il suo nome e lo pensò e ripensò come si pensa al caldo tepore delle coperte quando fuori il vento scuote la casa, all’attesa la vigilia di Natale, al posto sicuro in cui rifugiarti e se ti copri fino agli occhi nessun mostro ti potrà toccare.
Vincendo il dolore si rannicchiò in posizione fetale e desiderò fortemente dormire. Dormire e cancellare la realtà per svegliarsi e tornare a essere quella che era prima.
Il giorno prima. La vita prima.
Chiuse gli occhi e vide la porta di casa che si apriva, Anna che entrava sorridente con le buste della spesa e si avvicinava a baciarla. Abbracciami, baciami, stringimi forte. Il tuo calore curerà questo dolore che mi spacca l’anima, scorpora le membra. La sentì avvicinarsi, abbracciarla, consolarla. Poi, com’era iniziato, il sogno finì. Il cartone freddo sotto di lei. E ancora dolore. Doveva fare qualcosa.
Tornare a casa.

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